Articolo di Fiorenzo Festi, Professore ordinario di diritto privato.

1.- Le norme.

Il nuovo capoverso dell’art. 121 cpc, introdotto dalla riforma Cartabia (dlgs. 10 ottobre 2022, n. 149, attuativo della l. 26 novembre 2021, n. 206) prevede: «tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico».

La norma sembra riferirsi sia agli atti dell’avvocato sia agli atti del giudice (v. Relazione su novità normativa, Ufficio massimario e ruolo Corte Cassazione, n. 110, 1° dicembre 2022, p. 13).

L’utilizzo della voce verbale “sono” anziché “devono essere” suscita d’acchito perplessità, ma potrebbe essere frutto di una precisa volontà legislativa, collegata al fatto che, come si vedrà, la sintesi si atteggia in modo diverso per l’avvocato rispetto al giudice.

La prescrizione di chiarezza viene poi ripresa più volte, ma sempre a carico dell’avvocato: nel riformato art. 163, comma III, n. 4, a proposito dell’esposizione dei fatti e degli argomenti di diritto contenuti nell’atto di citazione; nel nuovo art. 342 con riferimento ai motivi dell’appello; nei nuovi artt. 366, comma I, nn. 3 e 4; 167, comma I; 281-undecies, comma III; 434, comma I; 473-bis.13, comma I, d) eccetera.

L’esigenza di sintesi viene richiamata, per l’avvocato, nel nuovo art. 342, comma I, sui motivi dell’appello; nel riformato art. 366, comma I, n. 4, sui motivi di cassazione; nei nuovi artt. 378; 380bis. 1, commi I e II; 434 e altri.

Per quanto riguarda il giudice, si può evidenziare il riformato art. 350-bis, comma II, dedicato alla sentenza emessa a seguito di discussione orale: «La sentenza è motivata in forma sintetica, anche mediante esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi», nonché i nuovi artt. 380bis e 436bis.

Il dovere di sinteticità sembra destinato a essere specificato e, soprattutto, sanzionato in forza del nuovo art. 46, commi V, VI e VII, disp. att. c.p.c.: «Il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, definisce con decreto gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo. Con il medesimo decreto sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell’intestazione e delle altre indicazioni formali dell’atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell’atto stesso. Il decreto è aggiornato con cadenza almeno biennale.

Il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comporta invalidità, ma può essere valutato dal

giudice ai fini della decisione sulle spese del processo.

Il giudice redige gli atti e i provvedimenti nel rispetto dei criteri di cui al presente articolo».

2.- Chiarezza.

Il precetto di chiarezza non è corredato da una sanzione, da una conseguenza negativa per la sua inosservanza.

Per quanto concerne il giudice, la mancata chiarezza nella stesura di una ordinanza non sembra possa dar luogo a conseguenze particolari: è sempre fatta facoltà alle parti di stimolare il potere di modifica dell’ordinanza da parte del giudice (art. 177, comma II, c.p.c.) e comunque le ordinanze non possono mai pregiudicare l’esito del giudizio (art. 177, comma I).

Quanto alla sentenza, non pare che l’innovazione di cui all’art. 121 possa dilatare i motivi di impugnazione in appello o in cassazione.

Anche per l’avvocato manca la previsione di una conseguenza per la mancanza di chiarezza.

Si osserva che, se la mancanza di chiarezza nell’atto di citazione sia tale da rendere assolutamente incerti il petitum o la causa petendi, l’atto di citazione medesimo risulterebbe nullo con obbligo di rinnovazione (Relazione cit., p. 14). L’osservazione è superflua, in quanto tale conseguenza è già prevista dal codice di rito ante riforma, con l’art. 164, commi IV e V, e non sembra che la previsione di cui al nuovo art. 121, comma II, possa aggravare quanto già previsto dal menzionato art. 164. Quindi, per aversi nullità della citazione occorrerà che la determinazione della cosa oggetto della domanda (art. 163, comma III, n. 3) risulti non solo non chiara, ma “assolutamente incerta” e che i fatti che costituiscono ragione della domanda (art. 163, comma III, n. 4) siano del tutto assenti.

Che per la mancanza di chiarezza non sia prevista una sanzione non solo non sorprende, ma risulta inevitabile. In effetti la valutazione in termini di chiarezza appare caratterizzata da elevata soggettività. A parte i casi estremi di assoluta incomprensibilità, che, per l’atto di citazione, trovano già conseguenza nel menzionato art. 164 e che, per gli atti difensivi, provocano l’ovvio effetto di non poter incidere sul convincimento del giudice, è impossibile individuare criteri oggettivi in base ai quali un discorso possa essere ritenuto non abbastanza chiaro. È chiaro ciò che è comprensibile, ma la comprensibilità dipende non solo dall’autore ma anche dalla perspicacia del destinatario.

D’altra parte, tutti pensano di scrivere in modo chiaro. Scopo dell’avvocato è convincere il giudice e, quindi, salvo ipotesi estreme di chi, temerariamente, scrive volutamente in modo criptico sperando che la confusione nasconda il torto, tutti cercano di scrivere in modo facilmente comprensibile.

Il problema è che la chiarezza nello scrivere è una dote non posseduta da tutti. Ed è anche indipendente dal livello di preparazione, considerato che non di rado si rinvengono scritti di dottrina titolata di assai ardua comprensione.

3.- Sintesi.

In astratto, il discorso sul precetto di sinteticità dovrebbe essere il medesimo: anche qui appare arduo individuare un criterio per stabilire quando un discorso non sia sufficientemente sintetico.

Tuttavia, si osserva che l’esigenza di sintesi potrà trovare una concreta specificazione nell’attuazione dell’art. 46, commi V, VI e VII, disp. att. c.p.c. (Relazione cit., p. 14), con l’introduzione di limiti massimi di battute, il cui superamento da parte dell’avvocato potrebbe incidere in senso peggiorativo sulla distribuzione del carico delle spese di giudizio.

In realtà, l’introduzione di limiti massimi di parole non ha necessariamente a che fare con la sintesi e può essere antitetica alla chiarezza.

Sotto il primo profilo, può essere che il numero massimo di battute sia sovrabbondante rispetto a quanto necessario a un’illustrazione sintetica della questione (l’effetto psicologico del limite massimo potrebbe indurre l’avvocato a raggiungerlo anche se non necessario, a scrivere di più di quanto avrebbe scritto in assenza del limite), sotto il secondo, può accadere che un’esposizione chiara della controversia imponga il superamento del limite.

In definitiva, l’imposizione di un limite massimo di battute garantisce la brevità, non necessariamente la sintesi e la chiarezza.

Questi ragionamenti, per quanto corretti, appaiono però quasi sofismi considerato il grave problema operativo di fronte al quale si trovano i giudici.

Un tempo gli atti venivano scritti a mano e, in seguito, con la macchina da scrivere. Occorreva avere le idee chiare e scrivere poco, perché la possibilità di correggere era limitata a meno di voler depositare in giudizio una “brutta copia”. Pure la possibilità di citare la giurisprudenza era limitata: per le massime occorreva possedere un repertorio o recarsi in una biblioteca giuridica, per poter citare brani di motivazione era necessario avere collezioni di riviste o, ancora una volta, ricorrere a una biblioteca.

Oggi, con il computer, si può scrivere di getto e poi correggere e ancora spostare brani a piacimento. Massime e motivazioni sono a disposizione di chiunque e, mediante il “copia-incolla”, inseribili senza fatica nell’atto processuale. Gli avvocati scrupolosi scrivono pagine e pagine, per non trascurare alcun profilo e, a volte, anche per mostrare al cliente il proprio scrupolo e la propria preparazione.

Mentre, pertanto, gli strumenti di scrittura dell’avvocato sono sensibilmente aumentati di livello, invece i mezzi di lettura del giudice sono rimasti i medesimi: due occhi, un cervello e una giornata composta sempre di ventiquattro ore.

La possibilità per gli avvocati di redigere scritti alluvionali va quindi correttamente arginata e l’indicazione di un numero massimo di battute può certamente essere utile alla soluzione del problema.

Va quindi condivisa l’idea, prevista dall’art. 46, commi V, VI e VII, di prevedere limiti alla lunghezza degli atti processuali di parte, ma lascia, però, perplessi l’introduzione di una sanzione (distribuzione spese di giudizio) collegata ai criteri che dovrebbero consentire di superare i detti limiti e di evitare la sanzione medesima (tipologia, valore, complessità della controversia, numero delle parti, natura degli interessi coinvolti).

La necessità di scrivere di più non dipende dal tipo di controversia, ammesso di comprendere ciò che significa “tipo”: infatti, non si può dire a priori che una lite in tema di contratto sia più complicata di una in tema di diritti reali, né si può affermare a priori il contrario.

Quanto al valore, qualunque avvocato sa perfettamente che, anche per ragioni di responsabilità, è opportuno essere maggiormente scrupolosi in cause di elevato valore, ma questo non è giusto, né conforme a Costituzione. Sotto il primo profilo, infatti, possono essere più importanti cinquantamila euro per una persona fisica che un milione di euro per una società di medie dimensioni e in bonis. Sotto il secondo profilo, l’art. 24 garantisce a tutti la possibilità di agire e difendersi in giudizio, indipendentemente dal valore dei diritti in gioco e codificare la regola per cui si può scrivere di più solo se il valore è più alto, rischia di introdurre una distinzione tra diritti di serie A e diritti di serie B.

La complessità della controversia, poi, è una tautologia: è ovvio che se la lite è complessa è necessario scrivere di più, ma il problema è individuare i criteri per attribuire il carattere di complessità.

Il numero delle parti può essere ininfluente, se le diverse parti formulino domande coincidenti.

Pure la natura degli interessi coinvolti, infine, non appare decisiva: una lite in tema da risarcimento del danno per omicidio stradale può richiedere scritti meno copiosi rispetto a un giudizio in materia di appalto.

In realtà, la complessità della controversia e la necessità di scrivere di più dipendono dal numero e dalle caratteristiche dei fatti, nonché dal numero e dalle difficoltà ermeneutiche delle norme invocate, ma è estremamente difficile indicare un discrimen prima del quale una causa possa essere definita non complessa e superato il quale possa ritenersi complessa.

La previsione della sanzione e dei criteri per evitarla appaiono quindi imperfetti.

Ma, a ben vedere, risultano anche superflui.

Invero, sarebbe stato sufficiente prevedere la realizzazione di protocolli analoghi a quello già previsto per i ricorsi in Cassazione (Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense dle 17 dicembre 2015), senza alcuna sanzione, per ottenere l’effetto di ridurre mediamente la lunghezza degli atti.

L’avvocato, invero, non vuole rendersi inviso al giudice e, in presenza di limiti concordati istituzionalmente (cfr. anche Proposte sub art. 121, Schema criticità riforma Cartabia, elaborate dall’Organismo Congressuale Forense), sarà propenso ad adeguarsi, salvo esigenze particolari.

La previsione di sintesi riguarda, come detto, anche il giudice, ma, mentre per l’avvocato rappresenta un limite, un vincolo, per il giudice risulta integrare una facoltà.

Si veda il riformato art. 350-bis, comma II: «La sentenza è motivata in forma sintetica, anche mediante esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi».

Più che di sintesi vera e propria, anche qui si tratta di riduzione del contenuto, ma certamente si può affermare che il giudice non sia obbligato a motivare succintamente, ma, semplicemente, che possa farlo.

Su questa base, è allora possibile che l’uso della voce verbale “sono”, anzinchè “devono essere” nell’art. 121 sia stata consapevolmente voluta dal legislatore.

Perché l’avvocato “deve” essere breve, mentre il giudice “può” motivare succintamente.

Esito: -

Classificazione:

Di Festi Fiorenzo

Avvocato in Modena. Professore ordinario di diritto privato.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.