[3/3] Fake news e diritto in una prospettiva comparata


Articolo di Francesca Benatti, Prof. Diritto privato comparato Un. Cattolica Milano
– Il Settimanale, rubrica a cura di Fiorenzo Festi –

3. DIFFAMAZIONE

Tuttavia, parte della dottrina ritiene che un allentamento dei criteri per l’illecito civile di diffamazione1 sia opportuno, non solo per tutelare la reputazione delle persone coinvolte e il diritto all’informazione, ma anche per prevenire l’hate speech2 e i discorsi discriminatori. Soprattutto, si discute se sia giusto estendere le stesse garanzie e tutele che si applicano ai media tradizionali, che generalmente adottano controlli e verifiche, all’informazione su Internet, che avviene in un contesto spesso non regolamentato.

Il rapporto tra libertà di stampa e reputazione è complesso. In Italia è oggetto di un diritto della persona garantito dall’art. 2 Cost. ed è stato recentemente proposto di definirlo come “il senso della dignità personale secondo l’opinione del gruppo sociale, in base al particolare contesto storico”, restando irrilevante la considerazione che ciascuno ha di se stesso. In giurisprudenza si riscontra la difficoltà di distinguere le ipotesi di lesione della reputazione da quelle dell’onore, del decoro o dell’immagine, spesso considerate analoghe o sovrapposte alle prime; ciò si spiega considerando come si possano distinguere tre diverse accezioni di reputazione, riferite rispettivamente all’onore, alla natura dei beni e alla dignità.

La prima è la visione tradizionale e più diffusa. Da questo punto di vista, l’onore è l’espressione dello status che la società accorda a una certa posizione sociale con cui l’individuo si identifica. L’antropologia ha dimostrato che questa forma di onore è presente fin dagli albori della società, come si può vedere, ad esempio, nel rispetto dei membri di una tribù per il capo o lo sciamano. Montesquieu, da parte sua, sottolineò che era l’origine di tutti i regimi monarchici.

La nozione di reputazione come bene è piuttosto recente e si è formata sotto l’influenza dell’economia di mercato e di una visione individualistica della persona3 . Tuttavia, già nel XVII secolo, nel Leviatano, troviamo i semi di una concezione proprietaria della reputazione: Hobbes scrive che il valore di un uomo e la percezione sociale di lui sono “il suo prezzo”. L’immagine del soggetto nella realtà in cui opera, considerata come un “bene”, riceve così una valutazione economica. Il risarcimento del danno alla reputazione si basa quindi sul danno al valore di mercato. Questa prospettiva si ritrova, in particolare, nelle decisioni sui danni alla celebrità in un determinato settore, dove la giurisprudenza tende a risarcire la vittima principalmente per il deprezzamento della sua immagine, ed è stata seguita, tra l’altro, in Gertz v. Robert Welch4 , che è fondamentale per quanto riguarda il risarcimento dei danni alla reputazione negli Stati Uniti. In questo caso, la Corte Suprema Federale, nel ritenere che il risarcimento debba essere concesso solo per il danno effettivo, tenendo conto dell'”interesse sostanziale” della parte, ha aderito proprio alla concezione proprietaria dell’immagine.

Il terzo concetto, che identifica la reputazione con la dignità, affonda le sue radici nella sociologia del diritto. Da questo punto di vista, la reputazione rappresenta l’identità, la personalità dell’individuo nella società. Questa visione si basa sull’idea, sviluppata da Goffman, che ogni individuo dipende dagli altri “per completare il quadro di lui, di cui egli stesso può dipingere solo alcune parti”5 . Il rispetto e la deferenza dei concittadini sono fondamentali ed è compito dell’ordinamento giuridico punire i reati che ledono la dignità di ogni persona. Nella giurisprudenza statunitense, questo concetto si trova in Rosenblatt v. Baer6 , dove si afferma che la protezione della reputazione riflette “nient’altro che il nostro concetto di base della dignità e del valore essenziali di ogni essere umano, un concetto che si trova alla base di qualsiasi sistema decente di libertà ordinata”. Va notato che nella realtà odierna queste concezioni della reputazione non sono alternative, ma vengono impiegate contemporaneamente dai tribunali.

Il fondamento del danno alla reputazione è la falsità di una notizia o di un determinato comportamento in grado di danneggiare l’immagine della persona colpita. Un ruolo rilevante è attribuito alla diffusione della notizia o della condotta, anche ai fini della determinazione dell’ammontare del compenso. Per verificare l’eventuale impatto dannoso, si dice, è necessario individuare i valori e le convinzioni della comunità di riferimento, poiché il danno alla reputazione è innanzitutto un danno sociale. Infatti, la tutela della reputazione si basa sull’idea di un gruppo di persone con valori stabili e condivisi. Ma se questo poteva essere vero in passato, quando c’era omogeneità di pensiero e l’impatto economico dell’immagine era di scarsa importanza, l’evoluzione della società virtuale sta lentamente e inesorabilmente distruggendo il mito della comunità e cambiando così la percezione delle ipotesi di danno7 . È anche chiaro che non tutte le cattive notizie hanno un impatto sulla reputazione di una persona.

L’esame della giurisprudenza italiana ci permette di catalogare una serie di casi che sono, in qualche misura, tipici del danno reputazionale. Questo elenco non è esaustivo e spesso è difficile classificare i numerosi casi specifici. Sono frequenti le ipotesi di pubblicazione di foto o immagini in grado di cambiare il modo in cui il soggetto viene percepito, così come la diffusione di notizie false, basate su fonti di informazione non affidabili né efficacemente controllate. In questi casi, occorre trovare un attento equilibrio tra l’interesse pubblico alla conoscenza di determinati fatti e la tutela della libertà di espressione garantita dall’articolo 21 della Costituzione, da un lato, e il diritto dell’individuo alla protezione della propria reputazione politica, commerciale, professionale e sociale, dall’altro.

Negli Stati Uniti, con la sentenza New York Times Co. v. Sullivan8 , il conflitto è stato risolto a favore della libertà di stampa, in quanto la prova del dolo, cioè la consapevolezza o il totale disinteresse della falsità della notizia, è stata considerata necessaria per costituire un illecito nel caso di un pubblico ufficiale. Oggi il criterio utilizzato è quello del “dolo” o della “imprudenza” nel caso di personaggi pubblici, mentre per i privati, intesi in senso lato come coloro che sono stati involontariamente trascinati “sotto i riflettori”, è sufficiente la colpa. La Corte europea dei diritti dell’uomo9 ha affermato che “i limiti della critica ammissibile nei confronti del politico sono più ampi che nei confronti del privato cittadino, poiché il primo è inevitabilmente e consapevolmente esposto al controllo delle sue azioni da parte dei giornalisti e della massa dei cittadini, e le esigenze di protezione della sua reputazione devono quindi essere bilanciate con gli interessi della libera discussione delle questioni politiche”10 . Più in generale, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, la circolazione delle idee deve essere incoraggiata e quindi i limiti possono essere fissati solo in misura strettamente proporzionale agli obiettivi perseguiti dalle norme. Recentemente, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che un giornalista in buona fede non può essere ritenuto responsabile per non aver verificato le dichiarazioni rilasciate durante un’intervista. La decisione appare discutibile, in quanto la valutazione delle dichiarazioni dovrebbe essere considerata decisiva ai fini della responsabilità: una notizia “shock” in grado di avere conseguenze importanti e di circolare rapidamente, magari anche sui social network, dovrebbe essere verificata prima della pubblicazione11 .

In Italia,12 tiene conto dell’utilità sociale dell’informazione, del modo di raccontare e della veridicità dei fatti, del ruolo svolto dalla persona nella realtà sociale13 . È interessante notare che una sanzione privata è prevista anche proprio per la diffamazione a mezzo stampa, come ha sottolineato anche la Corte di Cassazione quando ha affermato che “la sanzione pecuniaria di cui all’art. 12 della legge sulla stampa non costituisce una forma di riparazione del danno, né comporta una duplicazione degli elementi risarcibili, ma integra un’ipotesi eccezionale di sanzione pecuniaria privata, prevista dalla legge”14 .

Si possono distinguere tre funzioni fondamentali del reato civile di diffamazione15 :

(a) la deterrenza, volta a prevenire ex ante la diffusione di notizie e dichiarazioni false per paura di essere esposti a responsabilità

b) il risarcimento, che consente di compensare e rimediare alle conseguenze economiche e personali;

c) quello della rivendicazione, che consente, attraverso il processo, l’accertamento della verità e il ristabilimento dei fatti nell’opinione pubblica.

Questi fini devono essere bilanciati e possono soccombere alla necessità di proteggere la libera espressione del pensiero. Inoltre, c’è sempre stata una certa diffidenza nell’attribuire ai tribunali e, più in generale, allo Stato il ruolo di garante della verità. Il ragionamento della Corte Suprema Federale degli Stati Uniti nella causa United States v. Alvarez è emblematico: “ci sono ampie aree in cui qualsiasi tentativo da parte dello Stato di criminalizzare discorsi presumibilmente falsi presenterebbe un grave e inaccettabile pericolo di sopprimere discorsi veritieri. Le leggi che limitano le false dichiarazioni sulla filosofia, la religione, la storia, le scienze sociali, le arti e altri argomenti di dominio pubblico rappresenterebbero una tale minaccia. Il punto non è che non ci sia verità o falsità in questi ambiti o che la verità sia sempre impossibile da determinare, ma che è pericoloso permettere allo Stato di essere l’arbitro della verità”16 .

Parte della dottrina ha sottolineato la necessità di rafforzare la funzione dissuasiva della diffamazione, poiché la circolazione di notizie false, soprattutto su fatti o personaggi politici, contaminerebbe il gioco democratico e ostacolerebbe il processo di corretta formazione delle idee. L’argomento sembra discutibile. Quando si verifica un danno alla reputazione, la parte lesa può intentare una causa per danni. Il meccanismo delle scuse potrebbe svolgere un ruolo importante in questi casi. È stato giustamente osservato che “nel contesto della diffamazione, le scuse hanno una duplice funzione. Esiste una funzione di giustizia riparativa, che cerca di ripristinare il rapporto morale tra le parti. Secondo le teorie basate sul risentimento, l’autore del reato ha umiliato la vittima della diffamazione, quindi le scuse cercherebbero di riconciliare la vittima con l’autore del reato. D’altra parte, in un quadro di giustizia riparativa, le scuse cercherebbero di ripristinare lo stesso rispetto per le regole secondo cui nessuno dovrebbe pubblicare dichiarazioni diffamatorie”17 .

Tuttavia, va notato che il rimedio dell’illecito per diffamazione è più facile da applicare contro i media tradizionali, comprese le versioni online, e i siti di notizie che contro i social media, i forum e i provider in generale. Negli Stati Uniti, infatti, è generalmente esclusa. In Europa, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sembra adottare un approccio caso per caso. Nella causa Delfi c. Estonia18 , la Grande Chambre ha stabilito che lo Stato membro non ha violato l’articolo 10 per aver condannato un portale web a pagare i danni derivanti dalla pubblicazione di commenti anonimi considerati offensivi e incitanti all’odio e alla violenza contro terzi. L’azienda non solo aveva il controllo sui contenuti pubblicati, ma aveva incoraggiato gli utenti a trasmetterli integrandoli nel sito. Inoltre, il portale aveva la possibilità di bloccare o cancellare il commento, senza che l’autore, una volta pubblicato, potesse fare qualcosa di tecnico per rimuoverlo.

In decisioni successive la Corte è, però, giunta al risultato opposto. Nella causa Rolph Anders Pihll contro Svezia19 , che riguardava commenti diffamatori su un cittadino svedese pubblicati su un sito web, le autorità svedesi hanno ritenuto di aver trovato un giusto equilibrio tra il diritto alla privacy dell’individuo e la libertà di espressione di cui gode l’associazione che gestisce il blog. Il commento era stato prontamente rimosso con delle scuse e, sebbene offensivo, non costituiva un incitamento all’odio o alla violenza. Ha poi sottolineato il fatto che si tratta di un sito web con un numero relativamente basso di lettori, gestito da una piccola associazione senza scopo di lucro. Ha poi espresso il principio, ribadito nella causa Magyar Jeti Zrt contro Ungheria20 , secondo cui il provider non può essere ritenuto automaticamente responsabile, poiché ciò comporterebbe un’eccessiva limitazione della libertà di espressione su Internet.

Tuttavia, nonostante queste difficoltà, non sembra possibile o opportuno modificare la struttura della diffamazione per proteggere un interesse generale. Soprattutto, in molte ipotesi non sono riconoscibili né il nesso causale né il danno specifico. Si pensi al caso della disinformazione su un candidato alle elezioni politiche, che poi si è rivelato perdente. Non è possibile determinare in modo affidabile in che modo le fake news abbiano influenzato la scelta degli elettori o se si siano semplicemente aggiunte a una stima già bassa del candidato o a una mancanza di accordo con il programma di governo. Infatti, non solo le notizie, ma anche le proprie esperienze, ideologie e necessità influenzano il voto. Allo stesso modo, non sembra facile configurare il danno: una scelta elettorale, anche sorprendente o “sbagliata”, può costituire un danno? La popolarità di un personaggio può essere un pregiudizio? E su quale base è quantificabile? In questo contesto, quindi, il controdiscorso valutato dal giudice Kennedy in Alvarez sembra preferibile a una manipolazione degli strumenti giuridici. Come è stato giustamente sottolineato, in una democrazia, da un lato è sbagliato sottovalutare l’elettore e, dall’altro, è proprio la libertà di espressione che permette di rispondere a informazioni e argomenti falsi.

4. Conclusioni

La questione delle fake news sembra oggi difficile da definire o risolvere, non solo per la sua complessa identificazione. Soprattutto, sembra essere la naturale conseguenza di una società che, avendo progressivamente smantellato ogni autorità, ora ne avverte l’assenza, ma manca di legittimità. Il tentativo, talvolta percepito, di controllare l’opinione pubblica sembra più simile a un Ministero della Verità orwelliano che a un’autentica preoccupazione democratica. Gli stessi censori sono potenze economiche non neutrali in grado di sfidare gli Stati 21. I salotti del XVIII secolo si sono trasformati nella piazza virtuale dei social network, i controlli sulla veridicità delle notizie sono minori, gli strumenti giuridici sono insufficienti di fronte all’evoluzione tecnologica, ma la soluzione preferibile, anche se forse non perfetta, resta quella indicata da Holmes: “il bene più alto è meglio raggiunto dal libero scambio di idee, … il miglior test della verità è la capacità del pensiero di essere accettato nella competizione del mercato, e …la verità è l’unica base su cui i nostri desideri possono essere raggiunti con sicurezza”22 .

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1 MYERS, Cody E. “Legal Litmus Test: Using Defamation Reform to Determine the Proper Approach for Fixing the Fake News Problem”, in U. Dayton L. Rev., 2018, 44, pp. 595.

2 Sul tema VIGLIONE, Filippo, “Riflessioni sui rimedi civilistici all’hate speech”, in Rivista Diritto Civile, 2020, pp.775-795.

3 POST, Robert C. “Le basi sociali della legge sulla diffamazione: la reputazione e la Costituzione”, in Calif. L. Rev. , 1986, 74, p. 691.

4 418 U.S. 323 (1974).

5 GOFFMANN, Erwin, “Interaction Ritual: essays on face-to-face interaction”, Londra, Aldine Publishing Company, pp. 84-85.

6 383 U.S. 75 (1966).

7 ARDIA, David S., “Reputation in a Networked World: Revisiting the Social Foundations of Defamation Law”, in Harv. CR-CLL Rev. , 2010, 45, p. 261.

8 376 U.S. 254 (1964).

9 La Corte europea dei diritti dell’uomo utilizza un test in tre fasi: se la restrizione della libertà di espressione è legittima; – se serve a uno scopo legittimo; se è necessaria in una società democratica; – se è necessaria in una società democratica.

10 CEDU 8.7.1986, in Foro it., 1987, IV c. 50.

11 Kącki c. Polonia, CEDU 4.07.2017, Racc. n. 10947/11,

12 ALPA, Guido, “La responsabilità civile. Parte generale, Torino, UTET, 2011, p. 492 ss.

13 Cassazione civile, 18.10.1984, n. 5259, contenente il decalogo del giornalista

14 Cassazione civile, 17.03.2010, n. 6490.

15 ARBEL, Yonathan A. e MUNGAN, Murat, “The Case Against Expanding Defamation Law” in Ala. L. Rev., 2019, 71, p. 453.

16 567 U.S. 709 132 S. Ct. 2537; 183 L. Ed. 2d 574; 2012.

17 PINO-EMHART, Alberto. “The Value of Apologie in Law and Morality”, in Revista Estudios Institucionais, 2020, 6.3, p. 1412.

18 Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 16.06.2015, ric. n. 64569/09.

19 Corte europea dei diritti dell’uomo 9.03.2017, ric. n. 974742/14.

20 Corte europea dei diritti dell’uomo, 4.12.2018, ric. n. 11257/16.

21 De MOURA FALEIROS, “Responsabilidade Civil E Fake News: A Educação Digital Como Meio Para A Superação Da Desinformação E Do Negacionismo”, in Revista de Direito da Responsabilidade, 2020, pp. 197-223 sottolinea la necessità di una formazione digitale.

22 Abrams v. United States 250 U.S. 616 (more)40 S. Ct. 17; 63 L. Ed. 1173; 1919

Esito: -

Classificazione:

Il Settimanale, Open

Prof. Diritto privato comparato Università Cattolica Milano

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