– Il Settimanale, rubrica a cura di Fiorenzo Festi –
– Ciao guerrieri, vado al lavoro!
Mentre stampava un bacio sulla testa dei suoi due figli, Hoco pensava che gli spiaceva non parlare con loro l’africano, ma i suoi ragazzi erano nati in Italia e avrebbero imparato l’italiano. Certo in Italia il lavoro non era granché, lo stipendio era appena sufficiente a pagare il cibo e l’affitto, sempre che non fosse vera la storia dell’aumento. Però, con qualche lavoro di fatica extra, poteva comprare qualche vestito per sua moglie e i suoi figli, e perfino portarli al cinema o al luna park una volta ogni tanto. La vita era difficile, ma almeno i suoi figli non avrebbero vissuto con la paura delle scorrerie e avrebbero avuto un’istruzione regolare. Così, un giorno, sarebbero diventati medici o avvocati, o qualsiasi altra cosa avessero voluto.
Thérése, invece, vestendo i ragazzi per la scuola, aveva il solito sguardo, lo sguardo di chi non pensa a nulla e fa meccanicamente le cose che deve fare. In realtà non era così, in realtà nella sua mente si affacciavano mille pensieri. Se fosse giusto stare in un paese straniero. Se avesse fatto bene a dare ascolto ai suoi genitori e a sposare un uomo molto più vecchio di lei. Sul perché le altre donne, solo per essere nate in Italia, potevano permettersi profumi, mobili, elettrodomestici, mentre a lei nulla di questo era accessibile. Non solo Thérése non poteva comprare ciò che avrebbe desiderato, non poteva nemmeno permettersi di desiderarlo. Ma non doveva consentire a quei pensieri di entrare nella sua testa e di distrarla da ciò che doveva fare: stare vicino ai suoi figli e a suo marito, nella lotta giornaliera per l’esistenza. Perciò, appena si affacciavano, lei li scacciava e assumeva quell’aria vacua che gli altri interpretavano come superficialità.
La mattinata trascorse come tante: Hoco ai forni e Thérése a cercare i posti più a buon mercato per fare un minimo di spesa.
La disgrazia capitò all’ora di pranzo, mentre madre e figli stavano per mangiare una frittata nella stanza più grande della casa, l’unica che, chiuso il divano letto, aveva spazio sufficiente per aprire il tavolo e mettere le sedie. Fu come un vortice. Talmente veloce che Hoco ne venne a conoscenza solo a fatto compiuto, quando Thérése poté chiamarlo, piangente, dal telefono di un bar.
La mamma aveva appena messo a tavola la frittata. Alberto e Ruggero stavano già per cominciare a litigare sulla fetta più grossa, quando suonò il campanello. Senza nulla presagire, Thérése aprì la porta.
– Siamo qui per eseguire lo sfratto. Se non ha un’altra abitazione, dobbiamo avvisare i servizi sociali e i figli le verranno sottratti.
Queste le uniche parole dette da uno dei due uomini, che si infilarono in casa come mosche e, come mosche, continuarono a girare raccogliendo e inscatolando tutto ciò che trovavano.
Thérése, che si era ricordata di quelle lettere con cui il proprietario aveva chiesto una maggiorazione dell’affitto e di quello strano avviso con la cartolina verde, aveva capito cosa stava succedendo. Aveva compreso che quanto gli aveva detto l’inquilino del primo piano con i capelli lunghi, quello che tutti chiamavano l’”avvocato”, di stare tranquilli, che non sarebbe successo nulla, non era vero. Per cui iniziò a piangere, prima forte, nella lontana speranza di impietosire quegli uomini, poi piano, con rassegnazione. Alberto, che non aveva ben chiara la situazione ma vedeva la madre disperata, la abbracciò e si mise a piangere anche lui. Fortunatamente Ruggero, il minore, rimase affascinato dalla novità e non si preoccupò.
Dopo solo mezz’ora Thérése e i figli si trovarono abbandonati e soli nel parchetto antistante il condominio, con la loro roba messa in scatole di cartone o infilata in sacchi di plastica ammassati a fianco delle panchine.
Lo sfratto era avvenuto senza clamore, solo i vicini si erano accorti dell’accaduto. Piano piano la voce si diffuse nel caseggiato e i visi dei condomini fecero capolino dietro le finestre. Aumentavano a macchia d’olio: tante facce che li guardavano senza espressione.
Thérése si fece forza e, senza smettere di piangere, raccomandò ai figli, che per fortuna stavano iniziando a giocare con l’altalena, di non allontanarsi. Poi cercò un posto per telefonare.
Hoco ricevette la comunicazione poco prima di iniziare il turno del pomeriggio. Se la telefonata fosse avvenuta durante il turno non avrebbe potuto nemmeno rispondere. Sentire la propria moglie piangere e dire che lei e i figli erano senza casa, senza un posto dove andare, fu terribile. Non poté nemmeno pensare a qualche frase di incoraggiamento perché irruppe il suono acuto della sirena e dovette rimettersi al lavoro; non poteva permettersi di perdere anche quello. Lavorò tutto il pomeriggio, con gli occhi annebbiati dalle lacrime, rischiando più di una volta di perdere il ritmo e di lasciare le mani sotto la pressa. Continuò a premere e tirare. Premere e tirare. Premere e tirare.
Era disperato. Pensava che non avrebbe dovuto dare retta a uno che si faceva chiamare “avvocato”, ma che – lui l’aveva capito subito – avvocato non era. Sapeva che, anche se non l’avesse ascoltato, non avrebbe potuto pagare l’aumento dell’affitto, ma almeno avrebbe avuto il tempo di cercare un’alternativa. Sentiva di essere oggetto di una enorme ingiustizia: quanti dei suoi conterranei venuti in Italia si erano dati allo spaccio o alla prostituzione e abitavano in case bellissime, viaggiavano su fuoriserie. Lui, che si era sempre comportato onestamente, che si era pure rifiutato di aiutare Anneke a rubare, di notte, il rame abbandonato nella vecchia stazione, veniva punito con spietata crudeltà. Cosa avrebbe fatto, dove avrebbe portato i suoi figli e sua moglie a dormire, a mangiare, a studiare, a vivere? Non ne aveva idea. Il suo cervello era vuoto, spento, ma doveva sforzarsi di pensare, di trovare una soluzione.
Forse quelle suore che ogni tanto suonavano al citofono lo avrebbero aiutato, anche se chiedere aiuto a chi predicava una religione diversa dalla sua sarebbe stata una profonda umiliazione. Comunque ci sarebbe voluto tempo, e intanto dove avrebbero vissuto? Aveva un groppo in gola che sembrava voler esplodere e le lacrime gli scendevano sulle guance senza interruzione, mentre continuava a premere e tirare. Premere e tirare. La cosa che più gli spiaceva, che gli mozzava il fiato e gli spaccava il cuore, era pensare al suo figlio più grande, Alberto. Del piccolo, Ruggero, non si preoccupava, perché era forte. Ogni cosa per lui si trasformava in gioco, e poi non era abbastanza cresciuto per capire. Si sarebbe adattato con il sorriso a ogni situazione. Alberto invece era un ragazzino sensibile, in grado di cogliere ogni suo stato d’animo. Alla sera, quando rientrava a casa, Alberto riusciva immediatamente a capire se era stanco, se era stato umiliato dal capoturno o se aveva litigato con altri operai. Pensare anche solo all’espressione di desolazione, di smarrimento, che doveva aver avuto Alberto mentre li sbattevano fuori di casa, gli era insostenibile. Lo avrà sicuramente cercato, avrà chiesto piangendo dov’era il papà. E lui non c’era.
Alberto si affidava al papà in tutto. Quando, da piccolo, a causa della malattia, doveva sopportare le iniezioni nella schiena, gli stringeva forte la mano. Sentiva molto male, ma reprimeva il pianto e gli diceva che se c’era lui non sentiva dolore.
Ogni sera gli dava la buona notte per ultimo. Gli dava un bacio sulla fronte e poi gli sistemava la coperte fissandole sotto il materasso. Hoco non lo sapeva che così le coperte erano troppo strette e che, non appena usciva dalla stanza, Alberto le tirava fuori con fatica da sotto il materasso per liberarsi dal peso. Alberto però non protestava mai, perché la forza di quel gesto del padre gli piaceva, gli dava protezione.
Anche Hoco, da piccolo, aveva avuto un rapporto particolare con suo padre. Il pensiero gli corse al villaggio, a quando era bambino. E in quell’attimo si rese conto che, nonostante il pericolo di attacchi e le angherie dei capi tribù, solo lì era stato veramente felice. Quella volta in cui i militari avevano dato fuoco alle capanne e lui e i suoi fratelli non sapevano dove scappare: suo padre spuntò all’improvviso, come un lampo, li prese tutti e sette in una volta e li cacciò nella pozza sotto il serbatoio. Un’altra volta, i capi del villaggio gli tolsero metà del campo e tutta la famiglia fu pubblicamente umiliata, Hoco e i suoi fratelli sbeffeggiati dagli altri ragazzi. Il padre di Hoco allora li chiamò, disegnò sul loro viso e sul loro torace disegni di guerra bellissimi, che così crudi, fieri e colorati non si erano mai visti, e poi disse loro di andare per il villaggio uniti, a testa alta, ché nessuno li avrebbe più canzonati. E loro lo fecero. Tutti si scansarono al loro passaggio e nessuno osò guardarli negli occhi.
Come avrebbe voluto che suo padre fosse ancora vivo. Lui sicuramente avrebbe saputo cosa fare. Hoco si sentiva solo, abbandonato, naufragato in mezzo all’oceano. Suo figlio, i suoi figli, la sua famiglia, confidavano in lui, credevano in lui e lui, invece, non sapeva cosa fare. Si sentiva esattamente come si era sentito Alberto al momento dello sfratto. Hoco avrebbe voluto ritornare bambino e farsi avvolgere dalle braccia forti e fresche di suo padre. Lui avrebbe certamente trovato una soluzione.
Verso sera, scese dall’autobus, appesantito dalle borse e, alzato lo sguardo, li vide in lontananza: ombre contro il sole. Erano le sei di un giorno di fine luglio. L’aria era limpida perché un vento caldo e secco aveva spazzato via gli umori della città. Scorse Ruggero sull’altalena, mentre Alberto e Thérése stavano seduti, su una panchina, affranti. Hoco alzò la testa, respirò a fondo l’aria calda, deglutì rimandando il groppo nello stomaco, distese le labbra in un sorriso e accelerò il passo.
– Ehilà guerrieri! – disse arrivando.
– Papà! – Alberto scattò in piedi e si mise a correre per abbracciarlo. Doveva essere stata davvero una situazione pesante perché anche Ruggero, che, di solito, se stava giocando, non lo considerava, gli si buttò al collo.
– Suvvia ragazzi, cos’è questa faccia?! È solo un contrattempo, passeremo la notte qui, in tenda, e domani andremo in una nuova casa. E intanto per festeggiare sapete cosa faremo? Pollo allo spiedo e patatine. Proprio come piace a voi.
E intanto tirava fuori dal sacco che aveva sulle spalle due confezioni di rosticceria, e due tende usate, che aveva chiesto in prestito a un collega di lavoro.
– Ma adesso organizziamoci: la mamma e Ruggero pensano alla cena, mentre io e Alberto prepariamo le tende.
– Anch’io, anch’io, voglio preparare le tende! – disse Ruggero.
– Bene, allora alle tende ci pensate voi due. Io aiuto la mamma a preparare da mangiare. Se avete bisogno di aiuto, chiamatemi.
I due ragazzi iniziarono a darsi da fare e Hoco si avvicinò alla moglie. Thérése lo guardava con espressione interrogativa.
– È vero che hai già trovato dove andare? – gli chiese.
Hoco ebbe un istante di esitazione. Poi decise di regalare anche a sua moglie una notte di serenità.
– Certo – rispose – ho già parlato con le suore cristiane e mi hanno promesso una sistemazione.
Lei lo guardò con una espressione che significava: proprio tu, con le suore! Ma non disse nulla e lo abbracciò.
E fu così che iniziò una serata che Alberto e Ruggero non avrebbero mai potuto scordare. Non si fidavano del tutto. Soprattutto Alberto dubitava che i problemi fossero risolti; ogni tanto si girava a osservare l’espressione del padre, ma lo vide sempre sorridente. Hoco si era imposto di apparire felice. Se pensava all’indomani veniva assalito dal panico. La tentazione di condividere l’angoscia con i suoi familiari era forte, ma aveva deciso di comportarsi come aveva sempre fatto suo padre: in quell’oceano in burrasca lui sarebbe stata la scialuppa e li avrebbe, per quanto possibile, salvati dai flutti.
Cercarono un punto del parco in cui non dare troppo nell’occhio e montarono le tende. Poi costruirono un tavolo di fortuna a fianco di una panchina e lo imbandirono. Dalla strada non erano visibili e questo li metteva al sicuro da una visita dei vigili, almeno finché qualcuno dei condomini non avesse fatto la spia. Il giorno dopo sarebbe certamente avvenuto, ma forse per quella sera i vigili li avrebbero lasciati in pace.
Seduti intorno al tavolo, ringraziarono come ogni sera il loro Dio e poi addentarono i pezzi di pollo ancora caldo che la mamma aveva diviso. I ragazzi sentivano il brivido dell’avventura e dopo cena Hoco pitturò loro il volto: li fece crudi, fieri e selvaggi, come aveva fatto suo padre, e iniziò a raccontare una storia della sua Africa.
Più tardi venne la signora Marisa, l’inquilina del terzo piano, con una torta di pane appena sfornata e si unì a loro. Dopo poco arrivarono anche Anna e Marco, i loro ex vicini di pianerottolo, con una vaschetta di gelato. Quella giornata orrenda si stava concludendo con un soffio di umanità. Hoco riassunse l’inizio della storia per i nuovi arrivati e continuò il racconto. Rimasero tutti lì ad ascoltarlo, rapiti, finché il sole, dilatato e rosso, non calò dietro gli alberi. Fu una serata luminosa, i colori del tramonto rimbalzavano tra le finestre dei palazzi.
Verso le undici gli amici condomini rientrarono in casa. Hoco avrebbe voluto stare ancora un po’ sulle panchine, ma i ragazzi scalpitavano dalla voglia di coricarsi in tenda. Anche Thérése era distrutta. Non pensava che sarebbe riuscita a dormire, ma voleva chiudere gli occhi e provare ad allontanare i pensieri terribili della giornata appena trascorsa. Entrarono tutti nelle tende. Hoco, però, si affacciò a osservare il cielo. Era una serata tersa, ma in città si riuscivano a vedere solo due o tre stelle, le più luminose. Hoco ne fissò una e si ricordò di quand’era piccolo, di quando suo padre gli diceva: quella è tua sorella, era talmente bella e splendente che Dio l’ha voluta con sé, lassù nel cielo. Il ricordo della sorella che non aveva mai conosciuto lo distolse per un momento dalla sua angoscia.
In quel mentre, dalla finestra del secondo piano, si diffuse il dolce suono di un pianoforte.
Prima lento, soffuso, poi più veloce, un invito a tornare alla vita. Back to life. Ecco un motivo per avere speranza: i suoi figli e sua moglie erano ancora vivi e avevano lui, Hoco, il capitano che, prima o poi, li avrebbe condotti in porto.
Appena albeggiò Hoco si alzò. Mise in ordine le sue cose e cercò di raccogliere le idee per la difficile giornata che lo attendeva. Per fortuna era sabato, non doveva andare a lavorare e aveva tempo per cercare una sistemazione. Verso le otto si sarebbe recato al convento per parlare con le suore. Aveva già pensato a cosa dire, a come giustificarsi. Sapeva, inoltre, che presto i condomini si sarebbero lamentati e che sarebbero arrivati i vigili, ma sperava che non accadesse subito, perché al momento non sapeva dove portare la sua famiglia. Forse in stazione, ma gli avevano detto che se non avevi il biglietto non ti facevano nemmeno entrare.
Ma la sfortuna soffre mai di solitudine? Si chiese quando, poco prima delle otto, vide i vigili arrivare all’ingresso del parco. Si guardavano intorno guardinghi, come per cercare qualcuno o qualcosa. Dall’ingresso del parco non potevano vedere le tende, ma stavano venendo proprio nella loro direzione. Contemporaneamente, vide uscire dall’atrio dello stabile il terribile trio: il capo condominio, soprannominato l’orso, per la sua corporatura e per il suo modo di parlare, l’onnipresente signor Rotunno e quella zitella acida della signora Serrizzi. Da una parte i vigili, dall’altra parte l’orso con i suoi sgherri: li stavano accerchiando. Hoco non si perse d’animo, fece un respiro profondo e si preparò ad affrontarli.
I suoi stavano ancora dormendo e sperava che ciò sarebbe bastato a impietosire vigili e condomini e a concedere loro un po’ di tempo. Ma in cuor suo sapeva che si trattava di un’illusione. In quel momento si chiese che cosa avrebbe fatto suo padre, al suo posto. Era talmente furbo che avrebbe certamente trovato un diversivo. Sì, ma quale? Pensò che avrebbe potuto tirare un sasso contro i vigili e poi scappare, così lo avrebbero inseguito e avrebbero lasciato in pace la sua famiglia. Ma non sarebbe servito a molto, anzi le cose sarebbero peggiorate. Dopo un po’ i vigili sarebbero tornati e lui non avrebbe più nemmeno potuto essere d’aiuto perché l’avrebbero messo in prigione. Poteva fingere di avere un attacco di pazzia: mettersi a cantare o a urlare oppure a denudarsi. Niente, anche questo non sarebbe servito.
Intanto la manovra di accerchiamento continuava. Arrivarono per primi i rappresentanti dei condomini. Hoco, con la testa completamente svuotata non poté evitare di abbassare il capo, in segno di rassegnazione. L’orso, con in mano un mucchio di fogli, bofonchiò:
– Non potete stare qui, sgrunt – sembrava aver detto.
– Non potete stare qui – confermò la zitella Serrizzi con traduzione simultanea.
– Lo so, lo so – disse Hoco – in mattinata ce ne andremo.
L’orso brandì la mano con i fogli e disse qualcosa che assomigliava a un: abbiamo stabilito i turni.
– Abbiamo stabilito i turni – confermò l’interprete.
– Che turni? – disse Hoco – non c’è bisogno di alcun turno di sorveglianza. Abbiate solo un po’ di pazienza. Nel pomeriggio ce ne andremo e non ci vedrete più.
– No, no, cosa avete capito!? – disse Rotunno – ieri sera abbiamo fatto una riunione tra tutti i condomini e abbiamo deciso di darvi ospitalità fin tanto che non troverete una sistemazione definitiva. Poiché le nostre case sono tutte piccole, nessuno di noi può tenervi tutti e quattro per molti giorni. E allora abbiamo deciso che ciascuno di noi, a turno, ospiterà due di voi per una settimana. Su quaranta, hanno aderito in trentasei: ciò significa che per diciotto settimane siete a posto e poi, se non avrete trovato nulla, potremo ricominciare il giro.
L’orso gli mise in mano i fogli e Rotunno aggiunse:
– Ecco, questo è l’elenco dei turni: per la prima settimana l’onore di ospitarvi sarà mio e del capo condominio.
Hoco rimase senza parole. Alzò verso il cielo gli occhi che gli si stavano riempiendo di lacrime. L’astro di sua sorella non era più percepibile a occhio nudo, ma lui lo vide lo stesso, vide sua sorella dall’alto che gli sorrideva radiosa. Riabbassò poi gli occhi sul palazzo: tutti lo guardavano dai balconi o dalle finestre. Alcuni alzavano timidamente la mano, per salutarlo. Provava gioia e sollievo per i suoi e un’enorme commozione per la sorprendente manifestazione di generosità.
Poco dopo arrivarono i vigili, che lo invitarono a smontare le tende e a togliere la roba ammassata, ma, inaspettatamente, in modo gentile. In quel momento sbucò l’immancabile signora Marisa con due bricchi di caffè e un’altra torta, stavolta alle mele. Tutti, senza fare complimenti, accantonarono il problema dello sgombero e fecero colazione. Bevuto il caffè, l’orso si fece avanti e si mise a parlare con i vigili, che però non capivano una parola e si guardavano l’un l’altro con fare interrogativo. Ci sarebbe voluta la consueta traduttrice, ma la Serrizzi aveva la bocca piena perché stava assaporando una deliziosa fetta di torta.
In quel momento Alberto uscì dalla tenda. Si stropicciò gli occhi e vide tutta quella gente. Inizialmente si spaventò, poi, osservò le loro espressioni serene e si tranquillizzò. Capì che suo padre aveva detto la verità: la scialuppa era giunta in porto, il capitano li aveva salvati.
Esito: -